runo Di Bello è nato a Torre del Greco il 10 maggio 1938. Nel ‘58 frequenta ancora l’Accademia di Belle Arti di Napoli ma già espone e, con Biasi, Del Pezzo, Fergola, Luca e Persico, forma il “gruppo ‘58”. Il suo lavoro si distacca da quello dei suoi amici per un riferimento ad un’arte segnica, astratta, più vicina ad esperienze di azzeramento della pittura. Nel ‘62 prima mostra personale alla Galleria 2000 di Bologna, nel ‘66 espone a Napoli alla Modern Art Agency di Lucio Amelio ed incomincia ad usare la fotografia come proprio mezzo di realizzazione artistica. Nel ‘67 si stabilisce a Milano, ed il suo studio diventa una grande camera oscura dove, in grandi tele fotografiche sperimenta tutta una serie di riletture dell’esperienza delle avanguardie storiche e di rivisitazioni dei propri miti artistici (Klee, Duchamp, Man Ray e i costruttivisti russi) sviluppando così un’idea di arte come riflessione sulla storia dell’arte. Espone per la prima volta da Toselli nel ‘69 e nel ‘70 alla galleria Bertesca di Genova. Nel ‘71 espone allo Studio Marconi un’istallazione composta di 26 tele fotografiche con la scomposizione dell’alfabeto e prosegue poi ad elaborare opere in cui parole/concetto si scompongono e ricompongono animando un gioco di dispersione e ritrovamento di senso. Da Marconi esporrà anche nel ‘74, nel ‘76,nel ‘78 e nell’81. Altre sue personali sono quelle del ‘74 alla galleria Art in Progress a Monaco ed alla Kunsthalle di Berna,nel ‘75 all’I.C.C. di Anversa e alla galleria Plurima di Udine, nel ‘77 alla galleria Lucio Amelio di Napoli . Alla fine degli anni ‘70 le sue tele fotografiche da analitiche diventano sintetiche: grandi segni neri si accampano su fondi bianchi realizzando una elementare scrittura di luce. Espone questi lavori nel ‘78 alla galleria Rondanini di Roma e nell’estate ‘80 realizza un grande lavoro per il Festival di Spoleto. Altre tele fotografiche sono realizzate negli anni ‘80 giustapponendo figure umane ed oggetti che proiettano le loro ombre sul materiale fotografico sviluppato poi con grandi pennellate. E’ di quel periodo l’”Apollo e Dafne nel terremoto” eseguito per la collezione “Terrae motus” allestita da Lucio Amelio ed esposta a Parigi-Palais Royale, ed ora in permanenza presso la reggia di Caserta. Altre sue opere sono state acquisite dal museo Boymans di Rotterdam, dalla Galleria d’arte contemporanea di Parma, dal museo d’arte moderna di Mexico City e dal museo di Dortmund. Dagli anni ‘90 dirada le sue apparizioni in pubblico e si dedica allo studio delle nuove tecnologie operando ricerche come grafico e fotografo digitale. Il filosofo Mario Costa, professore di discipline estetologiche nelle Università di Salerno, Napoli e Nizza, teorico dell’ estetica dei nuovi media, che lo presenta in catalogo, così definisce il suo lavoro:“Questo vecchio artista che, da pittore, ha amato soprattutto Klee e la sua mitogenesi della forma, e che,passato alla tela fotosensibile, ha ricoperto i muri delle gallerie d‘arte con forme fatte di "segni di luce",così come Man Ray o Moholy non avrebbero mai potuto fare, si rivela adesso in grado, come pochi altri,di metterci davanti a delle vere forme sintetiche. ..Il proprio dell‘immagine digitale, o sintetica, ci è sembrato essere, e questo quasi venti anni fa, il suo darsi come una epifanìa ritratta in sé; l‘immagine sintetica, abbiamo detto, è un nuovo reale, essa vale come una nuova entità del mondo visibile, esiste e funziona come una aseità interrompendo ogni rapporto col referente, col soggetto, con l‘immaginario e con l‘inconscio. Era difficile fino ad ora pensare ad una forma così fatta. Ora non lo è più. Le forme digitali di Di Bello hanno la gelida ed inquietante consistenza di una realtà che non è la nostra e che ci sta di fronte come un estraneo non domesticabile...Ma con lui il raggiungimento tecnologico della meta si apre, di fatto, su un abisso dal fondo indiscernibile: sembra, a volte, di scorgere nelle sue immagini dei frammenti che ancora ricordano o rimandano ad una qualche rassicurante storia dell‘arte, ma è proprio allora che il sentimento dell‘estraneità incombente si fa più lancinante perché è proprio allora che la storia dell‘arte viene massimamente posta fuori dalla sua antica essenza.
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